Il contraltare del voler aiutare

Il contraltare del voler aiutare

Il contraltare del voler aiutare

Il mio lavoro mi ha insegnato qualcosa di fondamentale nei rapporti con gli altri:

  1. Una richiesta di aiuto deve essere chiara e deve nascere in modo spontaneo.
  2. Nessuno si può accollare la responsabilità di un altro.

Questi due comandamenti non sono il frutto di un distacco menefreghista, sono la risposta a situazioni in cui l’aiuto raccomandato non poteva essere funzionale perché non desiderato, sono il dolore che si prova quando a fronte del supporto viene osservato che non è stato richiesto, sono la necessità che l’ascolto dall’altra parte sia attivo, come anche la disponibilità a mettersi in discussione e, infine, sono la constatazione che per un cambiamento, una decisione, una trasformazione, è necessario che ci sia l’impegno e l’interesse del soggetto coinvolto.

Astraendoci dal contesto di una relazione professionale d’aiuto, questi principi possono essere riconosciuti necessari anche con mariti, mogli, figli, capi, collaboratori e colleghi: pensate a tutte le volte che sentite una lamentela, proponente un’alternativa e dall’altra parte vi viene detto che, in fondo, va bene così; pensate a chi vi manifesta un problema ma alla prima osservazione nei confronti del suo comportamento vi aggredisce violentemente; pensate a coloro che vi presentano un’idea solo per sentirla elogiare senza avere il minimo interesse ad ascoltare varianti, integrazioni e miglioramenti…

 

UNA LEZIONE IMPARATA A SCHIAFFI

 

Sono sempre stata convinta che il mio dovere fosse quello di partecipare tanto attivamente a ciò che facevo da sentirmi chiamata a esprimere la mia opinione e segnalare quanto prima possibili errori o strade alternative da percorrere. Sì, perché ho sempre pensato che se in una cosa ci stai, ci stai al 100% e sei tenuta a dare il massimo, altrimenti ti astieni completamente.

Armata quindi delle migliori intenzioni e certa che il mio sforzo e la mia dedizione fossero ciò che ci si aspettava, i miei diversi punti di vista a volte diventavano nemico sullo stesso campo di battaglia: nel tentativo di far evitare errori, fare chiarezza, indicare opzioni e soluzioni, la persona si sentiva giudicata, attaccata, erosa nelle sue sicurezze.

Annegata nella rabbia e nel senso d’ingiustizia, cavalcavo sicura le praterie della mia ragione convinta che ripentendo, alzando la voce, accorandomi, il messaggio sarebbe passato. No. Altra frustrazione.

 

DOVE NON PUO’ ESSERCI UN CONFRONTO, SOLO LA VITA PUO’ ESSERE CONSIGLIERA E MAESTRA

 

Colpita emotivamente, esausta e afona per il tanto provare a farmi capire e di fronte a relazioni alquanto tese e poco spontanee, a un certo punto ho deciso di tacere.

Inizialmente ho agito in questo modo perché mi sentivo disarmata: ero consapevole che qualunque cosa avessi osservato avrebbe scatenato un attacco dall’altra parte e una mia reazione conseguente.

Poi ho taciuto non perché mi fossi arresa o avessi cambiato idea, ma perché mi ero resa conto che dove non può esserci confronto, solo la vita può essere consigliera e maestra.

 

LA SERENITA’ NON SI TROVA ACCAPARRANDOCI LA RAGIONE

 

La scoperta però è stata l’immensa leggerezza che mi ha pervasa non sentendomi in dovere di accollarmi responsabilità di altri: mi sono resa conto che, indossando una veste che non mi competeva, ero io che sbagliavo per prima, ero io che deformavo la visione.

Ogni volta che m’ immedesimavo eccessivamente, soffrivo di fronte a scelte che non erano mie: si può essere buoni consiglieri senza replicare lo schema dell’altro incaponendosi nelle proprie verità.

Sì, perché la serenità non si trova accaparrandosi la ragione, quello è orgoglio; la serenità caratterizza un intero percorso ed è determinata non solo da come agiamo, ma anche a soprattutto da come reagiamo.

Quel silenzio l’ho sempre considerato passivo e inerte ma è effettivamente una scelta: quella di camminare sul proprio sentiero evitando di provare a convincere chi non vuole seguirci.

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