Dicembre 2020: la stanchezza di un anno fuori dal comune

Dicembre 2020 la stanchezza di un anno fuori dal comune

Dicembre 2020: la stanchezza di un anno fuori dal comune

C’è un desiderio inespresso che spesso serpeggia negli umori di molti in questo 2020, qualcosa che non abbiamo il coraggio di ammettere, ma di cui sentiamo, straziante, il bisogno: una vacanza.

Una vacanza non necessariamente intesa come spiaggia bianca, pareo e ombrellino nel cocktail o giornate sfogate scendendo e risalendo sulle piste innevate, ma come un periodo di sospensione: una parentesi emotiva in cui si mettono in pausa le preoccupazioni e si lascia sedimentare tutto il trambusto interno che abbiamo vissuto in quest’anno incredibile.

Siamo tarati su una stanchezza di tipo diverso, quella che ci chiede di correre in modo inarrestabile tra ufficio, spesa, figli, genitori anziani, palestra e una parvenza di socialità. E’ la stanchezza del fare, riconosciuta e giustificata in base alle spunte della to do list; quella che viene sopportata grazie alla spinta ad agire in una società che riconosce una vita piena e soddisfacente in base alla performance, un mito che non viene applicato solamente all’ambito lavorativo, ma trasposto anche nel tempo libero in un arcobaleno di attività disparate.

Questa cavalcata tesa a snocciolare l’elenco di corsi seguiti, cibi preparati, libri letti, attività manuali scoperte e allenamenti casalinghi ha conquistato anche le terre confinate dalle quattro mura domestiche che ci hanno costretti in termini di spazio, ma hanno ampliato la necessità di riempire.

Riempire cosa?

Il vuoto creato da una normalità distorta o completamente capovolta che ha sradicato i punti fermi, le tabelle di marcia, i piani a breve e a lungo termine. Totalmente spiazzati, abbiamo cercato di compensare la lentezza di questa condizione con l’affanno di dover trovare modi utili per sfruttare questo momento.

Perchè abbiamo bisogno di certezze in un panorama di instabilità. Ci sentiamo come giocolieri inesperti che cercano di camminare su una fune che sembra essere lunghissima, che in alcuni punti è più tesa, in altri si allenta un po’ e mette costantemente alla prova il nostro equilibrio.

Perché abbiamo bisogno di sentirci utili. Il solo modo che ci hanno insegnato per riconoscere il nostro valore è quello di produrre e così cerchiamo di raccogliere provviste per affrontare un inverno che non sappiamo come si delineerà, con la speranza che ci siano utili per ripartire nel momento in cui il mondo ricomincerà a correre e non avremo più scuse, alibi, attenuanti.

Quella maratona è l’unica che conosciamo e l’unica che riusciamo a immaginare ma siamo consapevoli di aver perso il ritmo cadenzato dei passi regolari, il respiro è in affanno, i muscoli temono l’acido lattico e già al pensiero ci sentiamo stanchi, spossati, assonnati da questa sconosciuta letargia. Oggi più che mai però, l’idea di arrancare dietro a corridori più veloci, energici, preparati, ci inghiotte nel terrore di restare indietro, soli.

Ansia e arrendevolezza; paura e spossatezza: ecco il mix emotivo in cui un sentimento agita e l’altro tira a fondo, che crea quel bisogno così assurdo nell’anno più statico e meno produttivo della storia: una vacanza.

Sì, perché nonostante i sentimenti non vengano classificati come generatori di stanchezza nella società del fare, provano fisicamente e mentalmente.

Dicembre 2020 la stanchezza di un anno fuori dal comune

“Lost in transition”

Quando i serpenti cambiano pelle, attraversano un momento di cecità. Allo stesso modo quando ci allontaniamo da aspetti di noi stessi durante i periodi di transizione, possiamo perdere la visione di chi siamo e di dove e come ci adattiamo nel mondo; incapaci di tornare indietro e non ancora pronti per trasformarci completamente. Questa adolescenziale difficoltà a definirci non ci piace: ci sentiamo sicuri nella categorizzazione, preferiamo darci un nome, un ruolo e uno spazio che ci identifichi come nello yoga ricerchiamo la posizione finale e nel viaggio bramiamo la meta. Abbiamo l’urgenza di arrivare all’obiettivo vivendolo come un ancoraggio che ci può spingere una lega più in là e, questa fretta, ci fa perdere la visione di ciò che accade mentre raggiungiamo la meta. Ora è il momento della traversata e vede la gran parte di noi sporgersi a prua per scorgere un lembo di terra.

Cosa fare?

Concediti questa vacanza.

E, di nuovo, non intendo prenotare un volo che non sai se partirà mai, ma il prendere consapevolezza che la nave non arriva prima se ti sporgi teso/a in tutta la tua lunghezza appesa a quella balaustra.

Concedi al tuo sguardo di vagare in tutte le direzioni e osserva gli spunti che possono arrivare da dove non ti aspetti, da qualcosa che guardi per diletto e non con ambizione.

Concediti di rallentare e lasciati ispirare, senza l’urgenza di star dietro a quelli che sembrano navigare più velocemente. Concedi al tuo motore di prendere quel ritmo costante e sicuro che ti permette di consumare il giusto carburante, che ti garantisce di concludere la traversata senza spasmi.

Concediti di respirare, non pensare di poter stare in apnea per tutto il tempo in cui devi solcare il mare e ricerca la leggerezza del vento e una risata che rilassa le tensioni.

Concediti un’attenzione speciale per prepararti a ciò che sarà.

Come nello yoga:

“Ricordate, non importa quanto in profondità vai in una posizione – ciò che conta è chi sei quando ci arrivi.”

(Max Strom)

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